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I Fondi Pensione rendono più del TFR

Rendimenti fondi pensione superiori al 2%, meglio del TFR: bene tutte le tipologie di previdenza complementare, adesioni in crescita, razionalizzazione dell’offerta.

I fondi pensione stanno rendendo più del TFR con un incremento di adesioni e risorse accumulate e la chiusura di 17 fondi. Sono dati forniti dall’istituto di vigilanza Covip, secondo cui a fine 2016 in Italia c’erano 452 forme di pensione complementare: 36 fondi negoziali, 43 aperti, 78 piani individuali pensionistici (PIP), 294 preesistenti e FONDINPS.

Per quanto riguarda i rendimenti, in media i fondi pensione nel 2016 hanno registrato rivalutazioni superiori al 2% (TFR +1,5%). I risultati sono differenziati per tipologia: i fondi negoziali in media hanno guadagnato il 2,8%, i fondi aperti il 2,2%, i pip dal 2,1 al 3,6%.

La crescita maggiore ha riguardato azionari, misti, bilanciati. Nel dettaglio, i comparti azionari hanno guadagnato in media il 4,4% nei fondi negoziali e il 3,2% nei fondi aperti, e si sono attestati al 6% nei PIP. Le linee bilanciate hanno segnato rendimenti del 3,2% nei fondi negoziali,  del 2,7% nei fondi aperti, dell’1,5% per i PIP.

Negli ultimi cinque anni, periodo complessivamente favorevole sui mercati finanziari, il rendimento medio annuo dei fondi pensione è stato del 5,2% per i fondi negoziali, del 5,9% per i fondi aperti, del 6,4% per i pip unit linked e del 2,8% per le gestioni separate. Nell’analogo periodo il rendimento del TFR è stato pari all’1,7%. Attenzione analizzando i dati dal 1999, incamerando crisi e oscillazione dei mercati, il rendimento dei fondi pensione negoziali medio annuo scende al 3,1%, la rivalutazione del TFR si porta al 2,5%.

Gli iscritti a fine 2016 erano 7,787 milioni, in crescita del 7,6 % rispetto all’anno precedente. Nuove adesioni a quota  691mila, a fronte di 139mila uscite, in diminuzione rispetto al 2015. Le adesioni 2016 di lavoratori dipendenti sono 5,8 milioni; oltre che nei fondi negoziali e in quelli preesistenti, esse si concentrano per 1,7 milioni  nei  PIP “nuovi” e per 655mila nei fondi aperti. I lavoratori autonomi (includendo liberi professionisti e non occupati) totalizzano circa 2 milioni, di cui circa 1,1 milioni nei PIP “nuovi” e 600mila nei fondi aperti.

Sembra un’eternità, eppure sono passati solo dieci anni da quando quasi l’80% dei lavoratori dipendenti ha detto no alla previdenza complementare, per non lasciare il proprio caro vecchio Tfr.

Sembrava un tabù destinarlo ai fondi pensione: a dieci anni dall’entrata in vigore della 252/2005 è invece evidente che la maggioranza ha compiuto la scelta meno efficiente. Ovviamente due lustri non corrispondono al maggior “lungo termine” valutabile, ossia l’arco temporale della vita lavorativa di un individuo.

Ma per mettere a confronto le due opzioni abbiamo identificato insieme a Consultique (società di consulenza finanziaria indipendente) le posizioni di quattro ipotetici “gemelli”, che 10 anni fa hanno destinato il Tfr rispettivamente: in azienda o allo Stato (in caso di azienda con oltre 50 dipendenti), a un fondo negoziale, a un fondo aperto o a un Pip a gestione separata. Quindi abbiamo calcolato il montante prodotto dalla rivalutazione dei contributi versati alle diverse forme e preso in considerazione la media annua dei rendimenti di ciascuna forma previdenziale, oltre che i tassi di rivalutazione della “liquidazione” in questi decenni.

I risultati evidenziano che chi ha “mantenuto il Tfr in azienda” oggi abbia un capitale inferiore rispetto a chi ha aderito alla previdenza complementare. E tra le diverse forme, i fondi di categoria sono quelli che mostrano la capacità di rivalutazione maggiore: in media +44% sul Tfr. Il vantaggio resta comunque intorno al 25% anche se si sottrae dal capitale investito la quota di contribuzione volontaria e datoriale (rispettivamente 1%), tipica dei fondi negoziali e deducibile fiscalmente.

I fondi pensione, che utilizzano la finanza a fini previdenziali, hanno mostrato di saper rivalutare i contributi dei lavoratori sui mercati finanziari, più del tasso di rivalutazione del trattamento di fine rapporto (75% dell’inflazione più 1,5%); un tasso ambizioso per uno strumento prudente, eppure battuto dal sistema previdenziale, nonostante non siano mancate in questi anni le crisi finanziarie: il crack Lehman del 2008 e la crisi del debito italiano, culminato nell’autunno del 2011, su cui i fondi pensione sono molto esposti (tuttora circa un quarto del portafoglio). Da registrare che su 54 comparti dei fondi negoziali attivi il primo gennaio 2007 solo 6 mostrano rendimenti inferiori a quelli del Tfr; tra i fondi aperti oltre i due terzi battono il Tfr.

A confortare sulla convenienza dell’opzione per i fondi pensione interviene un altro elemento: in questo decennio i fondi pensione sono stati utili ai loro sottoscrittori, in quanto dai propri “conti previdenziali” i lavoratori hanno potuto attingere per far fronte alle proprie necessità: oltre che per spese sanitarie e prima casa, la normativa consente agli aderenti ai fondi pensione di chiedere anticipazioni per “ulteriori esigenze” per il 30% del montante, dopo otto anni di iscrizione al fondo.

E infatti nel 2015 si è registrato un picco delle anticipazioni: da 1,4 a 2,1 miliardi di euro secondo Covip, l’autorità di vigilanza sui fondi pensione. Una tendenza che conferma come i fondi pensione siano serviti ai lavoratori per le loro contingenze e per evitare di indebitarsi ulteriormente; anche se in questo modo hanno smontato quanto accumulato e ridotto le prestazioni future, almeno finchè non si reintegrino le posizioni individuali (beneficiando delle agevolazioni fiscali).

“I fondi pensione hanno mostrato di saper rivalutare i contributi dei lavoratori sui mercati finanziari, più del trattamento di fine rapporto, nonostante il crack Lehman ”

Ma se razionalmente l’adesione ai fondi pensione è così conveniente, perché ancora oggi solo una minoranza vi aderisce?

Diverse le ragioni e oggetto di studi, non solo di politici ed esperti di previdenza ma anche di psicologi: la finanza comportamentale spiega quanto sia difficile costruirsi un piano di lunghissimo termine senza soluzioni semi-obbligatorie o “spinte” del sistema. La volontarietà lascia soli i lavoratori, liberi più spesso di sbagliare che di fare il proprio interesse.

I pro e i contro delle diverse soluzioni

Vediamo insieme, in un’unica tabella, i pro e i contro di ogni soluzione che abbiamo descritto.

PROCONTRO
Fondi pensione “chiusi” di categoria o aziendali
  • Fiscalmente conveniente
  • Passando dal TFR al fondo pensione di categoria si incassa ogni anno il “premio” versato dal datore di lavoro: oggi pari a circa l’1,5% della retribuzione
  • Gestione professionale
  • Costi estremamente contenuti
  • Limitazione alla totale disponibilità del capitale durante la fase di accumulo dei contributi e al momento del pensionamento
Fondi pensione aperti e PIP (Piano Individuale Pensionistico)
  • Fiscalmente conveniente
  • Gestione professionale
  • I versamenti si possono variare o interrompere e il capitale può essere trasferito ad altra forma di previdenza complementare
  • Costi più elevati (in media oltre il doppio dei fondi pensione “chiusi”)
  • Il contributo del datore di lavoro non è automatico
  • Limitazione alla totale disponibilità del capitale durante la fase di accumulo dei contributi e al momento del pensionamento
Piani di risparmio personale
  • Costi di gestione contenuti (selezionando opportunamente gli strumenti finanziari)
  • Liquidità: massima libertà alla disponibilità del capitale durante la fase di accumulo dei contributi e al momento del pensionamento
  • La gestione è lasciata all’iniziativa e del risparmiatore
  • Nessuna agevolazione fiscale particolare

In tutti i casi, attenzione ai costi

I costi sono l’unica componente certa di qualunque investimento e, su un investimento come quello previdenziale che può interessare un periodo lungo, incidono pesantemente.